“Noi sappiamo ciò che fanno gli animali, quali siano i bisogni del castoro, dell’orso, del salmone e delle altre creature, perché, una volta, gli uomini si sposavano con loro e quindi hanno ricevuto questo sapere dalle loro spose animali”
(Detto di un gruppo di nativi americani riportato ne “Il pensiero selvaggio” di Claude Levi-Strauss)

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L’universale solitudine degli animali

di Franco Libero Manco

Dolorose mi tornano alla mente le immagini di chi in questo istante, in ogni parte del mondo, è vittima della fame, della miseria, delle malattie, della guerra, della violenza e di tutti gli orrori e gli egoismi causati dall’uomo.

Mi tornano alla mente le immagini di chi soffre per mancanza di cibo, di medicine, di una casa, di un lavoro, di coloro che muoiono di indigenza, ma anche di coloro che muoiono per troppo benessere.

Ma l’egoismo non miete solo vittime umane.

Vi è un numero incalcolabile di esseri indifesi quanto innocenti, gli animali, che  in questo istante vengono uccisi anche da parte di coloro che teoricamente si oppongono alle brutture del mondo

Dolorose mi tornano nella mente le immagini degli animali che in questo istante soffrono a causa dell’uomo.

È notte, è buio, è freddo ed io vedo con la mente le nobili mucche, i miti vitelli, i possenti cavalli, i teneri agnellini ammassati in angusti e pestilenziali stabulari con gli occhi dolci e senza malizia, che domani saranno macellati, uccisi, fatti a pezzi, arrostiti, confezionati e venduti ai supermercati perché tra pochi giorni è Pasqua.

Ed io non posso fare nulla per impedirlo.

Io ho la mia comoda casa, il salotto, la televisione, il telefono, il frigorifero pieno di ogni buona cosa.

Posso prendere l’automobile e spostarmi nei luoghi più diversi, incontrare altre persone, posso andare al cinema, a seguire un concerto, o guardare semplicemente le vetrine.

E loro sono sempre li, in silenzio, al buio, al freddo tra i loro escrementi e l’aria fetida delle stalle senza che la loro semplicità gli consenta di capire il perché della loro triste condizione.

Due anni è la vita media di una mucca d’allevamento.

Io in due anni quante cose ho vissuto.

Ho fatto il bagno nello splendido mare della Puglia, ho visitato molte città importanti, mi sono arrampicato fin su le montagne dello Stelvio.

Ho visto i verdi e trasparenti specchi lacustri.

E loro sono sempre lì, immobili, con la loro grande e tenera testa pelosa legata alla mangiatoia, muti, doloranti, spaventati.

La sola variante della loro misera e brevissima esistenza è che domani saranno caricati sui carri per essere consegnati ai carnefici.

E io non posso fare nulla per impedirlo.

E me ne vado per le strade ricche di gente, di colori, d’allegria.

Tra pochi giorni è Pasqua, è tempo di essere felici eppure qualcosa mi si schianta in petto senza che niente e nessuno possa lenire la mia angoscia, la mia disperazione

Immagini impietose mi tornano nella mente: volatili che agonizzano nei boschi con le ali spezzate o il ventre squartato da una fucilata e forse quell’uccello aveva dei pulcini che anch’essi moriranno lentamente, molto lentamente perché il crudele cacciatore doveva riempire il suo vuoto esistenziale uccidendo qualcosa, qualcuno.

Ed ora l’uccello è li che geme senza speranza, senza perché.

Vedo animali agonizzanti sui banchi dei vivisettori, alcuni vivi con il ventre aperto o il cranio trapanato.

Ed io sono qui, a cena con gli amici a festeggiare la prossima Pasqua e bisogna essere allegri mentre l’animale è sempre li nella sua schiacciante solitudine, nel suo strazio incomprensibile, senza possibilità di essere aiutato, senza che nulla e nessuno possa lenire la sua agonia.

Rivedo i teneri e morbidi agnellini stipati, ignari come bambini, belanti, impauriti che domani saranno scannati perché qualcuno vorrà mangiare le loro gambe, qualcun altro si delizierà il palato mangiando il loro fegato, qualcun altro mangerà il loro cervello, qualcun altro il loro cuore e le loro ossa saranno gettate in enormi inceneritori e di queste lanuginose e tenere creature non resterà più nulla, nemmeno il ricordo.

Appena affacciate alla vita non hanno avuto nemmeno il tempo di accorgersi di esistere

Vedo i possenti e spavaldi cavalli quando la “bestia” umana gli spara in mezzo alla fronte un proiettile captivo (che come uno scalpello gli pacca la fronte) e il cavallo stramazza, annullato come un sacco vuoto.

Ma adesso sono a cena con amici vegani, bisogna festeggiare, essere allegri.

Sulla tavola non ci sono animali ammazzati.

Prima di iniziare chiedo un minuto di raccoglimento e senza chiedere il motivo gli amici accettano ed in silenzio chiedo perdono agli animali, perdono per la mia impotenza: ma questo non cambia il loro crudele destino.

Ed è Pasqua.

IL RICCIO CHE PARLAVA

Là dove finisce l’arcobaleno
e gli gnomi nascondono il tesoro,
tra il bosco e il prato
abitavano i Freccialunga,
antica famiglia
di ricci pungenti.

Il più giovane di loro,
detto Ago d’oro, sapeva parlare
e parlava anche tanto,
con voce musicale di torrente.

Parlava alla luna,
diede un nome alle stelle
per salutarle la sera
ad una ad una.

Parlava ai pini, alle querce,
ai cespugli di more,
all’erba piegata dal vento.

Parlava ai temporali
e ai buchi misteriosi delle talpe,
agli uccelli nei nidi e sui rami,
parlava alle viole
e alle rose di macchia.

Con voce gaia di torrente
parlava a ogni cosa
del mondo magico e sospeso
tra le albe e i tramonti.

A tutti diceva: “Che meraviglia che sei!”

Passarono gli uomini
e udirono un rumore di torrente,
ma il torrente non c’era.

Soltanto un bambino
capì le parole
e vide Ago d’oro tra i cespugli.

“Che meraviglia che sei!”
gli diceva il piccolo riccio.

“Anche tu, anche tu!”
gli rispose il bambino.

“Vieni via, con chi parli?”
gli dissero gli uomini
prendendolo per mano.

“Vieni via,
non parlare col vento!”

Fiorenza Adriano

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L’universale solitudine degli animali