“Mattatoio: Luogo dove bestie massacrano altre bestie. È situato in genere a una certa distanza dagli abitati della specie umana, in modo che chi mangia carne non sia disturbato dalla vista del sangue”.
(Ambrose Bierce)

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UCCELLI IN GABBIA E PESCI NEGLI ACQUARI

di Franco Libero Manco

“Finché un animale sarà recluso nessun uomo sarà libero”

L’usanza di tenere uccelli in gabbia addolora chi ha un animo sensibile.

Splendide creature, assetate di sole e di cielo, nate per essere libere, tristemente recluse in strettissimi spazi per allietare con il loro canto e la loro bellezza esseri umani privi di coscienza

L’uccello, dalle ali a ventaglio e dal piumaggio smagliante, ama spazi illimitati, cerca i suoi simili; ma l’uomo, l’uomo lo strappa al suo mondo, lo reclude, per tutta la sua brevissima esistenza, in minuscole gabbie dove i giorni, i mesi, gli anni, tutti disperatamente uguali, scandiscono il tempo fino all’ultimo suo istante di vita, fino alla sua liberazione, fino alla morte.

E sogna l’uccello alberi verdi e campi d’erba in fiore che non vedrà mai; sogna la fresca acqua della terra; sogna il caldo sole negli occhi, la pioggia tamburellante sui rami, il suono delle fronde che vibrano al giocare del vento, e canta l’uccello la sua struggente nenia senza poter sfuggire al suo destino, alla sua incomprensibile condanna.

E che dire del pesce nel vaso o nell’acquario?

Piccolo essere dalle squame lucenti escluso per sempre dalle distese blù dei suoi oceani.

Gira il pesce, gira su se stesso, cento, mille volte al giorno, nella sua abissale solitudine e mentre le sue lacrime (chissà) si dissolvono nell’acqua, di lui ridono gli umani e il bambino dice “mamma, guarda che bello, che bei colori, che bella coda”

Che dire di tutti gli animali ai ferri negli stabulari?

Dei lager degli allevamenti intensivi?

Dei cuccioli di vitello incatenati, veri e propri bambini ai quali viene impedito qualunque movimento, qualunque contatto con la propria madre: creature che conoscono solo sofferenza fino alla liberazione del coltello: identica sorte dei loro sventurati cugini maiali.

E che dire del cane alla catena? Dio li crea liberi e l’uomo li imprigiona.

Abbiamo trasformato questa terra in un’immensa camera di tortura per animali

Dov’è il cuore della specie umana?

La durezza e l’indifferenza verso il dolore dell’altro rendono l’uomo il più tirannico dei predatori.

C’è nulla di più crudele, di più ingiusto, di più disumano della privazione della libertà di una creatura innocente, nata per essere libera?

C’è nulla di più egoistico che cercare il proprio piacere sull’altrui sofferenza?

L’insensibilità umana, l’oggettivazione del diverso, non portarono forse l’uomo a concepire l’idea dello schiavismo?

Ciò che legittimò lo sfruttamento del più debole a vantaggio del più forte? Ciò che lo inclinò alla negazione del valore supremo della Vita?

Perché imprigioni ingiustamente mentre non vorresti essere imprigionato?

Perché causi sofferenza se tu stesso cerchi di fuggirla?

Chi ruba l’altrui libertà imprigiona la propria coscienza, tarpa le ali alla propria anima

Libera quella quell’uccellino che hai nella gabbia, quel pesce che hai nell’acquario… spezza le sue e le tue catene e finalmente anche tu sarai un uomo libero.

“Visto dall’alto il mondo è un altro mondo”
di Marco Maurizi

Visto dall’alto il mondo è un altro mondo.

Viste dall’alto le nostre grandi imprese umane sembrano minuscole e irrilevanti, un formicolare di affaccendati tristi.

Viste dall’alto le vite di tutti gli esseri viventi che adornano la terra appaiono, in un colpo d’occhio e di ali, come una cosa sola.

Zampe esili tastano il mondo e ne saggiano la consistenza, aggrappate ad un ramo o ad un filo ma pronte a volare via ad ogni istante.

Legate ad ogni cosa e fissate a nulla, le zampe di una libertà che pesa poco sulle cose perché del peso delle cose sa fare a meno.

Un mondo dove si è in tanti eppure c’è tanto spazio.

Un mondo dove le case si costruiscono con dedizione per sé e i propri figli, pezzo dopo pezzo, con l’intelligenza seria di chi misura il tempo con il metro della cura.

E che si abbandonano, senza rimpianti, quando il tempo giunge a maturazione.

Un mondo dove la velocità è un valore che si somma alla saggezza, dove non c’è ansia del futuro perché ogni gesto è costruito sulla fiducia.

Perché per imparare a volare occorre fidarsi e lasciarsi andare.

E poi le ali.

Il dono del volo, la capacità di sentire il proprio corpo sciogliersi nell’aria, l’elemento del vuoto che ti sostiene, il possibile che si fa orizzonte, la libertà che si incarna in una parabola danzante.

Ridicoli, imbarazzanti e spaventosi al confronto, Icaro, Leonardo e i fratelli Wright.

La nostra invidia per gli uccelli è senza pari dall’alba dei tempi.

Ci guardano dall’alto – benché non dall’alto in basso – e questo a noi non va.

Non sopportiamo che esista una prospettiva al mondo che non sia la nostra.

Visto dall’alto il mondo è un altro mondo.

E così quell’altro mondo che ci affascina e deprime, perché mostra le mancanze del nostro, preferiamo chiuderlo in gabbia.

Perché la meraviglia delle cose pretendiamo possederla piuttosto che sfiorarla con le zampe come loro: anche se così facendo ne perdiamo irrimediabilmente l’essenza.

E se non possiamo averla preferiamo che non sia, che avvizzisca della nostra stessa tristezza.

Eppure avremmo molto da imparare dagli uccelli se decidessimo di aprire le gabbie e seguirne le impronte delicate.

Impareremmo a guardare il mondo sottosopra.

Che è poi l’unico modo per poterlo raddrizzare.

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