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I produttori di malattie
24 Ottobre 2019 ore 18:00 - 20:00
I produttori di malattie
Dr. Giorgio Vitali, Dottore in Chimica, Presidente Infoquadri
Essendo per natura un animale conformista e gregario, l’uomo tende ad adattarsi alla maggioranza nell’abito mentale come in quello materiale. Ciò è comprensibile. Quel che riesce più difficile spiegare è la sua persistenza negli errori. E quando finalmente riconosce un errore, l’uomo tende a sovrapporvene un altro, che spesso si rivelerà più grave del precedente. E ciò che fece dire a Roscommon, poeta e critico irlandese del XVII secolo, che “la maggioranza ha sempre torto”. Ed è interessante notare che gli errori sono dovuti tutti al ragionamento e quasi mai, e forse mai, all’intuito e all’istinto.
Aristotele, le cui idee furono considerate per molti secoli la massima espressione dell’intelligenza umana, affermava che un sasso grosso cade più velocemente di un sasso piccolo. Più che l’errore in se, oggi può apparirci stupefacente che non sia mai venuto in mente ne ad Aristotele ne ad alcun altro individuo per secoli e secoli di controllare tale affermazione con un semplice esperimento. Ciò dimostra che il pensiero umano si è sempre mosso entro una gabbia ben delimitata, in conformità alla propria epoca. La gabbia si sposta nel corso dei secoli, con le spinte che riceve dall’interno da qualche animo irrequieto, e copre un nuovo terreno; ma il pensiero continua a rimanere confinato entro i limiti della gabbia, da cui non può evadere.
All’epoca di Aristotele e per altri due millenni la gabbia non permise al pensiero umano di concepire l’esperimento, ossia di ricorrere al metodo sperimentale. Si dovette attendere un Cartesio per enunciarlo e alcuni suoi contemporanei per imporlo, come Galileo Galilei che volle mettere alla prova la teoria aristotelica dei due sassi e scoprì con sommo stupore che il sasso leggero cade alla medesima velocità del sasso pesante. L’umanità aveva atteso milioni d’anni per questa semplice constatazione.
L’idea di mettere ad arrostire in un forno cani vivi “per scoprire il segreto della febbre” poteva nascere solo in un cervello ingabbiato, severamente limitato da una concezione meccanicista della salute e della vita, come quello di Claude Bernard. Il fondatore della vivisezione moderna, a tutt’oggi definito un “genio”, non sapeva distinguere tra causa ed effetto: non aveva capito che la temperatura di un malato era la conseguenza e non l’origine della malattia. E così la medicina attuale pretende di guarire una malattia mascherandone i sintomi.
La gabbia attuale permette all’uomo di sostare su di un territorio che al tempo di Aristotele era sconosciuto, ma non gli permette di accettare come dati di fatto alcuni valori che sono altrettanto determinanti per la comprensione del mondo e della vita quanto le formule chimiche e matematiche.
Il metodo cartesiano allargò rapidamente i confini del sapere, ma sprezzando deliberatamente il pensiero filosofico e l’intuito, sostituì un nuovo e macroscopico errore agli errori precedenti: errore che conteneva il seme della futura disfatta, poiché indusse gli scienziati ad allontanarsi, senza accorgersene, dalla verità, ossia proprio dagli ideali scientifici. Negando l’esistenza di tutto ciò che non è dimostrabile, essi si divorziarono dalla realtà della vita.
In un dibattito pubblico organizzato nel 1973 dal settimanale Epoca è stato affermato che in laboratorio si può riprodurre esattamente un estrogeno naturale. L’affermazione era del prof. Silvio Garattini, e l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano da lui diretto era stato definito da Epoca (17-6-1973) “un centro tra i più importanti d’Europa per le ricerche sul cancro, sul sistema nervoso, sull’arteriosclerosi; oltre 400 pubblicazioni di diffusione internazionale testimoniano sui risultati dei suoi dieci anni di attività”.
A parte il fatto che ci si può domandare quali mai possano essere i “risultati” di queste ricerche, visto che i tre malanni menzionati da Epoca non avevano cessato di aumentare nel corso di quei dieci anni, è evidente che il prof. Garattini personificava quella scienza medica moderna che si muove entro i confini di una gabbia a cui si può solo dare il nome di bernardismo, perchè limitata dai dogmi enunciati da Claude Bernard. Infatti la dichiarazione che “in laboratorio si può riprodurre esattamente un estrogeno naturale” “ossia che un farmaco combinato con polverine artificiali sarebbe identico a tutti gli effetti a un ormone sessuale naturale, organico, prodotto dall’organismo vivente” è da mettere alla pari con i dogmi di Claude Bernard, secondo cui una prova ottenuta sugli animali è perfettamente concludente per l’uomo.
Dunque un laboratorio, analizzato un estrogeno (ormone sessuale) naturale, ricavato da un organismo vivente, ne stabilisce la formula chimica, in base alla quale poi riproduce un prodotto teoricamente composto dai medesimi ingredienti chimici individuati nell’ormone originale e che quindi ha con questo una somiglianza teorica, convenzionale; tuttavia i due prodotti non possono essere identici, poiché dell’ormone naturale saranno state individuate soltanto le materie inerti, i corps bruts tanto cari a Claude Bernard; ma non gli elementi più importanti, ossia quelli che sfuggono, proprio per la loro natura vivente, a qualsiasi analisi chimica: perchè provengono dalla vita stessa e sono condizionati da quel “vitalismo” che fece impazzire Claude Bernard mandando a monte tutti i suoi esperimenti.
Ma c’è di più: i prodotti artificiali contengono di solito sostanze deleterie, che le sostanze naturali che essi pretendono di imitare evidentemente non hanno.
Qualche decennio fa il capo del Reparto Chemioterapico dell’Istituto Nazionale (britannico) per Ricerche Mediche aveva scritto su Medical World (mar. 1956, p. 473) in un articolo intitolato Chemioterapia Moderna : “Gli effetti tossici dei farmaci moderni stanno diventando evidenti e le pubblicazioni mediche sono piene di esempi in cui il paziente ne ha ricevuto un danno maggiore di quello che gli avrebbe procurato l’infezione originale”.
Quindi non è di ieri la denuncia che la pletora di farmaci sempre nuovi non avvantaggia il pubblico, ma lo rende malato. E nel frattempo la situazione non ha fatto che aggravarsi.
Le lucrose fabbriche di malattie
Già nel 1961 il dott. Walter Modell dell’Università di Cornell, USA, definito dal settimanale Time “uno dei maggiori esperti di farmacologia”, aveva scritto su Clinical Pharmacology and Therapeutics: “Quando si capirà che esistono troppi farmaci? I preparati attualmente in uso sono più di 150.000. Ogni anno 15.000 nuove combinazioni inondano il mercato e 12.000 vengono eliminate… Non c’è un numero sufficiente di malattie per tutti questi farmaci. Finora il contributo più utile che ne abbiamo avuto sono i vari nuovi farmaci che combattono gli effetti dannosi degli altri nuovi farmaci”. (Time, 26-5-1961.)
Difficilmente si può essere più espliciti di così. Ma come mai migliaia di farmaci non bastano, tanto che ogni anno se ne aggiungono altre migliaia? Ovviamente non bastano perchè non curano. Si tratta per lo più di palliativi ben più nocivi dei mali che essi professano di combattere; di sostanze chimiche che simulano la guarigione, sopprimendo i sintomi, ma avvelenano l’organismo o inficiano il suo equilibrio naturale. Gli analgesici addormentano i nervi, indebolendoli, ma il disturbo che causava il dolore continua a svilupparsi, senza che il malato se ne accorga, finchè i danni diventano irreversibili. Se una persona soffre di emicranie in seguito a un disturbo intestinale, il farmaco gli farà passare (non sempre) l’emicrania, ma il disturbo intestinale si esprimerà più tardi, in modo più grave. Se uno stitico prende purganti, diventa ancora più stitico.
La cosiddetta “pesantezza di stomaco” è un avvertimento della natura che l’individuo ha mangiato troppo, per cui la valvola che fa passare il cibo dallo stomaco all’intestino non si apre. Tra i cosiddetti “digestivi” che oggi vengono tanto reclamizzati, vi sono quelli che s’incaricano di “digerire” il cibo nello stomaco, così togliendo a questo l’abitudine di produrre succhi gastrici in proprio e rendendolo sempre meno efficiente, oltre a intossicare il fegato; e altri che causano artificialmente l’apertura della valvola, per cui il cibo, sebbene non ancora pronto, passa egualmente all’intestino. Entrambi i rimedi danno al momento un senso di sollievo, per cui il mangiatore smodato, anziché ascoltare gli avvertimenti della natura, impara ad ascoltare quelli della pubblicità, mangiando di più anziché di meno e facendo affidamento su questi “farmaci miracolosi”: finché avrà sviluppato perlomeno un’ulcera, che spesso prelude a un cancro dello stomaco: altro tipo di cancro in continua ascesa. é logico che i produttori di simili farmaci, i medici che li prescrivono e i farmacisti che li vendono andrebbero messi in prigione. Ma cosa dire dei governi e dei legislatori che hanno tollerato l’instaurazione di un simile sistema? Se una persona soffre di arteriosclerosi che si rivela con crampi cardiaci, allora nessuna medicina cardiaca potrà evitarle un rene grinzo oppure un colpo apoplettico. Se una persona agitata ricorre ai tranquillanti, questi alla lunga le intossicheranno il fegato, per cui la persona diventerà ancora più nervosa, se non soffrirà addirittura di squilibri mentali; per non parlare dei danni irreversibili che la maggior parte dei tranquillanti causano alla vista, rovinando la cornea e la retina.
Chi preferisce dimenticare i propri dolori artritici ingerendo veleni farmaceutici anziché darsi al moto regolare e seguire una dieta più salutare, non fa che aggravare la propria condizione. Più deleteria ancora è la somministrazione, per ogni starnuto o influenza incipiente, oltre che di antistaminici, di antibiotici che privano l’organismo delle naturali facoltà di difesa e finiscono col trasformare il malato occasionale in un malato cronico; per non parlare del sospetto potere cancerogeno di molti antibiotici: un sospetto che sta diventando sempre più certezza.
Intanto una commissione medica cilena che il Presidente della nazione e medico Salvador Allende aveva istituito poco tempo prima di essere assassinato nel 1973, era venuta alla conclusione che in tutto il mondo esistono solo poche decine di medicamenti di un’efficacia terapeutica dimostrabile e che la farmacopea potrebbe essere ridotta in conseguenza. (Nouvel Observateur, 28-10-1974).
Naturalmente quel rapporto non ha sortito alcun effetto pratico. Le industrie farmaceutiche multinazionali, le autorità sanitarie dei vari paesi, la scienza medica ufficiale, l’OMS di Ginevra, hanno tutti fatto finta di niente. Ed è logico che chi non si fa scrupolo di rovinare la salute altrui per desiderio di profitti, s’infischi altamente delle sofferenze che infligge agli animali. E così è proprio sull’industria farmaceutica che ricade la maggiore responsabilità del continuo espandersi della vivisezione da una parte e, dall’altra, del deterioramento della salute pubblica negli ultimi decenni.
L’agopuntura cinese, i cui meriti il mondo occidentale sta finalmente scoprendo – in mani esperte permette perfino l’eliminazione di emicranie restie a tutte le altre cure e l’anestesia completa in caso d’interventi chirurgici, senza causare alcuno dei numerosi inconvenienti dei prodotti chimici – non è cambiata da vari millenni a questa parte, per cui la si può definire una vera scienza; laddove la cosiddetta “scienza medica” occidentale rinnega ogni giorno le verità di ieri, così come domani rinnegherà le verità di oggi. Aumenta ovunque il numero dei medici che, senza attendere un ripensamento dell’insegnamento “ufficiale”, si staccano spontaneamente dai dogmi del bernardismo biochimico e si avvalgono di metodi più naturali. Oggi, sui 50.000 medici che esercitano in Francia, più di mille praticano l’agopuntura, e molti altri si stanno orientando nella medesima direzione. Ascoltiamo il dott. Monnier, Presidente della Società Nazionale Francese di Agopuntura, intervistato da Giuseppe Grazzini (Epoca, 10-12-1972): “Negli ultimi anni abbiamo visto gli improvvisi splendori e le inevitabili decadenze di troppe mode farmacologiche: abbiamo sperato nei sulfamidici, nella penicillina, nei cortisonici, nelle vitamine: e ogni volta ci siamo accorti che quando si risolveva un problema se ne aprivano altri due e anche più, e alla fine il conto si chiudeva sempre in passivo”. Forse per delicatezza il dott. Monnier non ha aggiunto “tranne che per l’industria farmacologica”. Una delle asserzioni più ipocrite dei nostri tempi è quella che vorrebbe identificare nella filantropia la molla propellente dei fabbricanti di farmaci. Non è soltanto l’industria a far tale affermazione. Nel numero di agosto 1973 di un pieghevole di una banca svizzera si poteva leggere: “La Sandoz, che con una quarantina di società sussidiarie è al terzo posto dei complessi chimici svizzeri, ha come scopo principale il perfezionamento di mezzi e conoscenze atti a trattare ed impedire malattie umane. Così la maggior parte delle spese di ricerca, che nel 1972 ammontarono a 303 milioni di franchi (oltre 70 miliardi di lire), sono servite ad esplorare la salute”. La banca in questione, prostrata in ammirazione dinanzi a chi dispone di tanto liquido, si era guardata bene dal menzionare di quale e quanto sangue grondano le cosiddette “ricerche sulla salute”. é un’attività filantropica che rende bene, considerando che il giro d’affari di un’altra di queste ditte farmaceutiche di Basilea, ad esempio la Ciba-Geigy, fu di 7.626 milioni di franchi nel 1971 e l’anno seguente di 8.064 (oltre 1.700 miliardi di lire). Intanto nell’agosto 1973, la Hoffmann La Roche aveva annunciato la costruzione di una nuova fabbrica, per cui era previsto un investimento di 200 milioni di franchi (50 miliardi di lire), destinata unicamente alla produzione di vitamina C.
La vitamina C è quella che meno manca sia nelle farmacie che nella nostra alimentazione quotidiana. Evidentemente però la Roche aveva 200 milioni di franchi da investire: e non conosceva investimento più proficuo di un’ennesima fabbrica di medicinali. Intanto in vicinanza di questa fabbrica è già sorto un nuovo allevamento di cani beagles e gatti, dal quale i tre giganti svizzeri – Roche, Ciba-Geigy e Sandoz – si procurano animali da laboratorio. Facendo ammalare questi animali con diete artefatte, che non hanno alcun riscontro nella vita reale, la Roche dimostrerà al pubblico ingenuo a quale terribile fato va incontro se non fa largo consumo della sua vitamina C. Almeno quarant’anni fa al pubblico era stato promesso che l’ingestione di dosi massicce di vitamina C avrebbe curato quasi la totalità dei mali, aumentato la resistenza alle infezioni e portato al debellamento perlomeno dei raffreddori e dell’influenza. Non solo tutte queste promesse non si sono avverate, ma da allora le giornate lavorative perdute in seguito a raffreddori e influenze del personale nelle fabbriche non hanno cessato di aumentare di anno in anno. Ogni tanto la stampa ne parla, ma nessuno è capace di riunire i vari fili in una trama significativa. Una notizia dell’Associated Press portava il titolo “La vitamina C è inutile contro i raffreddori secondo uno studio di un medico americano” (Herald Tribune, 11-4-1974.). Lo aveva dichiarato ad Atlantic City il dott. Thomas Chalmers, presidente del New York City Mount Sinai’s Medical Center, dinanzi all’altisonante “Federazione di Società Americane per Biologia Sperimentale”, ossia una grossa associazione di vivisettori, contraddicendo il premio Nobel 1954 Linus Pauling, dopo un approfondito studio che aveva coperto un periodo che andava dal 1942 al 1974. Chalmers sconsigliava di prendere vitamina C per lunghi periodi di tempo, aggiungendo: “Non esistono dati in merito alla sua eventuale tossicità a lunga scadenza”.
C’è però qualcosa che sappiamo di sicuro in merito alla vitamina C in vendita nelle farmacie: “Dosi eccessive di vitamina C possono produrre scorbuto nel neonato, che con il parto si trova bruscamente allontanato da un ambiente ad alta concentrazione di acido ascorbico”. Così si leggeva sul Corriere della Sera del 29 a-gosto 1974, in un articolo che riferiva i danni accertati di un gran numero di farmaci che si trovavano in vendita. Insomma l’attuale scienza medica è stata capace di fabbricare casi di scorbuto nei neonati mediante la somministrazione alle gestanti di dosi eccessive di quella medesima vitamina che, ingerita in dosi normali, presenti in qualsiasi dieta ragionevolmente variata, rappresenta una garanzia contro lo scorbuto. I miracoli del diavolo…
[Commento di Ivan Ingrillì (presidente de La Leva di Archimede)] [Per quanto riguarda questo e il paragrafo successivo ho da fare la mia considerazione: credo che l’attuale tentativo da parte delle lobby del farmaco di mettere sotto scacco le vitamine e i minerali con l’ausilio di una direttiva europea recentemente approvata dimostri l’esatto contrario.Credo che sia stata fatta moltissima propaganda per screditare il valore preventivo e curativo di molti elementi naturali, proprio perche’ non brevettabili e privi di effetti collaterali non contribuirebbero al fenomeno ridondante del business farmaceutico della malattia (www.laleva.cc/The_Hague/it/indexrath.html).
Tra’ l’altro l’autore non si accorge che la propaganda e’ proprio nel suo stesso report, citando uno studio presentato ad una “grossa associazione di vivisettori” che vuole “contraddire il premio Nobel Linus Pouling”… – il che e’ tutto dire – e forse la vitamina C della Roche non era un gran che “efficace”, chissa’. Vi propongo un po’ di materiale da me raccolto sulla vitamina C (www.laleva.cc/archivio/news130503_vitaminaC.html).
Sono molti gli studi che dimostrano l’importanza fondamentale dei micronutrienti che sono alla base di tutti i processi biochimici del nostro organismo, NDR]
L’eccesso di vitamina A sintetica – altro prodotto che molti pediatri prescrivono senza altra necessità che di giustificare una salata parcella – può ritardare la crescita delle ossa del bambino e causare tumori, mentre l’eccesso di vitamina D può danneggiare i reni e il sistema nervoso, anche con conseguenze letali. (Brian Inglis, lo storico di medicina, in Drugs, “Doctors of Disease” ed. Andre Deutsch, Londra, 1965.) Naturalmente, dubbi esistono anche per tutte le altre vitamine artificiali. Ad esempio in merito alla E, il 11-10-1955 sull’autorevole Lancet si leggeva (p. 715): “In contrasto con le nostre dettagliate conoscenze dell’importanza della vitamina E per gli animali da laboratorio, permane una grande incertezza circa il suo valore per l’uomo”. Come non detto. Nei decenni che seguirono, la massiccia propaganda farmaceutica continuava a decantare le virtù miracolose della E. Senonché una recente notizia da Minneapolis ridimensionava ancora una volta la questione. Un articolo sull’International Herald Tribune (1-10-1973) intitolato “IL MIRACOLO DELLA VITAMINA E NON SOSTANZIATO DAGLI ESPERTI”, precisava: “La vitamina E, che era stata indicata come l’elisir di giovinezza, la restauratrice della potenza sessuale e una cura o un preventivo per qualsiasi malanno, dall’acne alle malattie di cuore, è rimasta un’enigma medico e scientifico di cui non è stato provato il valore terapeutico, secondo quanto è emerso da un simposio internazionale che ha avuto luogo nella nostra città”. Quindi un ennesimo prodotto miracoloso che ha miracolato soltanto i produttori. Ma vediamo come si è potuti arrivare a tanto.
Allettata dalle favolose possibilità di guadagno offerte nel dopoguerra dall’avvento degli antibiotici, che avevano fatto di quella farmaceutica l’industria più redditizia del mondo, questa aveva cominciato a usurpare il ruolo del medico. Un numero sempre crescente di individui che, come Claude Bernard, erano stati bocciati all’esame di abilitazione alla professione medica o che comunque non avevano mai passato cinque minuti al letto d’un ammalato, ma avevano solo contatti con topi, conigli, cavie, cani, gatti e scimmie – sui quali dovevano anzitutto infierire brutalmente per provocare stati anomali che non avevano alcun rapporto con le malattie dell’uomo – ricevettero l’incarico di combinare sempre nuovi farmaci “miracolosi”, con cui sostituire quelli che avevano fatto il loro tempo, perchè se ne era scoperta l’inutilità o la dannosità. Una propaganda massiccia, che non aveva riscontro in alcun’altra industria, persuadeva poi i medici a prescrivere questi nuovi farmaci, vantandone da una parte l’assoluta innocuità e dall’altra la straordinaria efficacia; un’evidente contraddizione, poiché ogni prodotto sintetico, quanto più è efficace per un verso, tanto più è dannoso per l’altro.
In medicina, come in nessun altro campo, si riscontrò così il curioso fenomeno che il commercio si mise a svolgere sempre più il ruolo dell’istruzione accademica, sovrapponendosi a questa mediante le proprie pubblicazioni propagandistiche.
Pochi medici hanno il tempo di tenersi al corrente dei nuovi prodotti e al massimo leggono la propaganda inviata dai fabbricanti. In considerazione degli “effetti collaterali” (eufemismo per “danni”) dei farmaci sintetici, il medico non dovrebbe prescriverli se non è sicuro della loro innocuità, ma senza dare ascolto al produttore, che ha interesse a minimizzare o sottacere questi “effetti collaterali”; e ciò dovrebbe essere ovvio. Senonché, a giudicare dai successi di vendita dei nuovi farmaci, medici tanto scrupolosi sono rari. Già nel maggio 1961 un medico francese, il dott. Pierre Bosquet, aveva scritto su La Nouvelle Crìtique: “La ricerca è strettamente subordinata a un rendimento commerciale immediato. Attualmente, la malattia è una delle maggiori fonti di profitti per l’industria farmaceutica, e i medici sono gli agenti volontari di questi profitti”.
Come altre organizzazioni di tipo sindacale, il cui scopo principale è quello di sostenere i propri interessi, anche la classe medica è cascata, senza accorgersene, nella trappola tesale dall’industria. Allorché verso la fine degli anni Quaranta il prezzo della penicillina – l’antibiotico che per volere del suo scopritore non era stato brevettato ma che per primo aveva apportato favolosi profitti ai fabbricanti – subì un improvviso crollo in seguito a superproduzione, le maggiori ditte americane vollero un prodotto simile, ma differente di quel tanto che lo rendesse brevettabile, e pertanto vendibile a un prezzo più alto. (Negli Stati Uniti basta una variazione della composizione molecolare per asserire l’originalità di un farmaco e renderlo brevettabile) Sicché nell’autunno 1949 la ditta Cynamid brevettò e lanciò l’Aureomicina, un mese dopo Parke Davis uscì con la Cloromicetina, e l’estate seguente la Pfizer, sino allora una ditta tranquilla, “seria” e “conservatrice”, lanciò la Terramicina sulle ali di una campagna pubblicitaria per la quale aveva preventivato una spesa di 7,5 milioni di dollari (4,5 miliardi di lire non ancora svalutate) per i primi due anni.
A poco a poco seguirono altre ditte con prodotti similari, di cui ancora una volta venivano vantate, da una parte, l’assoluta superiorità terapeutica, e dall’altra l’innocuità praticamente totale, che il tempo doveva regolarmente smentire. Fin da quando la penicillina aveva cominciato ad abbondare, i medici si erano messi a impiegarla indiscriminatamente, anche per mali minori come raffreddori o influenze, facendo così perdere all’organismo l’abitudine di difendersi da se, per via naturale, mediante la produzione di antigeni. I medici si regolarono alla stessa maniera con tutti gli altri e più potenti antibiotici che seguirono, impiegandoli persino profilatticamente, prima, durante e dopo le operazioni chirurgiche. Lo fecero per comodità immediata, senza curarsi che con ciò indebolivano in permanenza le difese naturali dell’organismo; né avevano previsto che i bacilli sopravvissuti avrebbero sviluppato ceppi di discendenti ben più virulenti dei precedenti, in base alla regola biologica della sopravvivenza del più forte. La lezione venne a metà degli anni Cinquanta: in vari ospedali scoppiarono epidemie che nessun antibiotico riusciva più a controllare. In un anno ci furono più di cento di queste epidemie, di cui una, in un ospedale del Texas, uccise 22 pazienti. L’industria non si lasciò sfuggire una simile occasione e subito prese a sfornare nuovi preparati, assicurando che questi, oltre a essere esenti da ogni effetto collaterale, sarebbero stati capaci di annientare qualsiasi ceppo di bacilli – anche ceppi futuri (!) – e che non avrebbero sviluppato ceppi resistenti, come avevano fatto gli altri antibiotici. Ai medici, ormai abituati a prescrivere antibiotici ad ogni occasione, non sembrò vero di avere a disposizione questi nuovi prodotti; così il ciclo ricominciò daccapo e perdura tuttora. C’è chi affermerà che l’uso profilattico di antibiotici ha salvato tante vite umane da giustificarne comunque l’uso, nonostante i noti svantaggi. Ma ancora una volta i fatti parlano diversamente, come dimostra un articolo di John Lear, redattore capo della rubrica scientifica dell’autorevole Saturday Review. “é documentato che gli antibiotici profilattici fanno più male che bene. Uno studio del dott. Kempe porta il risultato di 250 operazioni “pulite”. Di questi 250 casi, 154 non ricevettero terapia antibiotica, e di questi ultimi solo il 7,896 sviluppò conseguenze batteriche (bacterial aftermath). A tutti i rimanenti 96 vennero somministrati antibiotici profilatticamente, e complicazioni batteriche si riscontrarono nel 37,5% di questi 96 casi, mentre ricevevano antibiotici. Secondo la nostra esperienza, concluse il dott. Kempe, complicazioni batteriche in operazioni pulite sono cinque volte più frequenti in pazienti trattati profilatticamente”.
La blenorragia è una malattia venerea già nota in antichità e che i romani curavano con una prescrizione ippocratica: letto e latte, ossia assecondando l’opera della natura, suprema guaritrix.
Gli antibiotici hanno per qualche tempo fornito una cura più rapida delle precedenti cure antisettiche: un’iniezione o una pillola e il malato era guarito. Ma anche in questo caso non hanno fatto altro che modificare i batteri, creando in pochi anni ceppi più resistenti, refrattari a qualsiasi antibiotico, e forse persino alla cura letto e latte. In altri termini, in antichità si sapeva curare la blenorragia; oggi essa è stata rafforzata, e in molti casi non è più curabile.
I danni da antibiotici non cessano di accentuarsi. Ecco un estratto di una serie di articoli apparsi nel Bulletin de l’Association Generale des MÎdecins de Trance (1962-1963) a firma del dott. Raiga: “Da dieci anni a questa parte, il numero di ceppi stafilococcici resistenti alla penicillina è andato costantemente aumentando, specie negli ospedali, dove vediamo crescere il numero delle infezioni stafilococciche gravi, manifestatesi nel corso di trattamenti per affezioni di tutt’altra natura. Ciò è particolarmente evidente nei reparti di Maternità, dove le epidemie di tali infezioni hanno assunto proporzioni catastrofiche. Su queste attuali terapie ricade nettamente la pesante e tragica responsabilità di avere generalizzato e aggravato la patologia stafilococcica, mentre esse erano destinate, almeno in teoria, ad estinguerla… Questi incidenti appaiono ancora più drammatici quando sono la conseguenza della somministrazione di antibiotici prescritti per affezioni banali che sarebbero guarite più o meno rapidamente senza trattamento alcuno. In tali casi il medicinale è indiscutibilmente una causa di morte terapeutica. (Dott. A. Cayala e collaboratori.) Un discorso simile vale per il tifo: “Medici e malati hanno collaborato a fabbricare un tipo di tifo che resiste ai medicamenti e che ormai si spande dal Messico verso il resto del mondo”, ha dichiarato Ivan Illich.
E secondo questo noto sociologo, negli Stati Uniti muoiono annualmente 60.000 persone per colpa dei farmaci. Ma in verità il numero effettivo dovrebbe essere molto più elevato, poiché medici e ospedali hanno tutto l’interesse a sotterrare i propri errori, e molto spesso vi riescono. Ciò si spiega facilmente. Non si può stabilire nemmeno lontanamente quante persone muoiono in conseguenza di una ricetta medica. Molti decessi vengono attribuiti ad altre cause. é difficile che un medico voglia esporsi a essere criticato o citato in giudizio, identificando come causa di morte un medicamento da lui prescritto. D’altra parte, i farmaci raramente causano un decesso improvviso, ma danneggiano organi vitali, che solo più tardi porteranno a una morte più precoce, a volte in concomitanza con altre cause. Una spiegazione del perchè i nuovi farmaci sono pericolosi proprio a causa della sperimentazione animale, la diede involontariamente il dott. William Bean dell’Università dell’Iowa alla Commissione d’inchiesta sui profitti dei grossi monopoli industriali, istituita nel 1957 dal governo americano, sotto l’egida del senatore Estes Kefauver: “I guadagni più grossi si ottengono quando un nuovo farmaco viene messo in vendita prima che la concorrenza possa perfezionare un farmaco analogo. Dunque non si possono condurre lunghe prove negli ospedali: e così può accadere che un farmaco venga smerciato dopo estese prove di laboratorio ma con un minimo di prove cllniche”. Il discorso non potrebbe essere più chiaro: le uniche prove valide sono quelle cliniche, che andrebbero fatte con prudenza.
Le “estese prove di laboratorio” cui si riferiva il Bean sono quelle che si fanno sugli animali, e sono fallaci; tuttavia autorizzano le ditte farmaceutiche a inondare il mercato con nuovi prodotti il cui vero effetto sull’uomo il tempo soltanto rivelerà. Quindi le turbe mentali che spinsero i primi vivisettori del secolo scorso a formare generazioni di discepoli per i quali la “ricerca” medica era sinonimo di sperimentazione animale, non sono da sole responsabili del dilagare di una pratica barbara che si maschera da scienza. Col passare del tempo, agli esperimenti inequivocabilmente ispirati al sadismo oppure capaci di avanzare una carriera, si sono aggiunti quelli che potevano assicurare pingui profitti. E dal momento della scoperta che attraverso la tortura degli animali c’era, da guadagnare più danaro che con qualsiasi altra attività, non ci fu più scampo per quelle sfortunate creature.