L’idea che un essere vivente possa essere di proprietà di qualcuno è essa stessa un atto di violenza.
(Will Tuttle – Fine dello Specismo – Azione Mondiale)
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AMO GLI ANIMALI, MA OGNI TANTO ME LI MANGIO, E SPESSO LI INDOSSO
E’ l’incomprensibile condizione di alcuni animalisti che pur impegnati in difesa degli animali, pur partecipando animatamente alle manifestazioni per chiedere i loro diritti a non essere violentati o uccisi con la macellazione, la caccia, la vivisezione, l’uso di pellicce, i circhi equestri, i delfinari, gli zoo ecc., e magari hanno la custodia di una colonia felina o canina, non a rinunciano, anche se di tanto in tanto, alla bistecca, alla fetta di prosciutto, al petto di pollo o al pesce.
O se invitati non si fanno scrupolo a consumare ciò che offre la tavola, compresi i pezzi di animali (che dicono di amare) cucinati alla bisogna.
Ma c’è chi dice di amare gli animali e in realtà ama solo cani e gatti, e spesso solo i propri.
Come è possibile sentirsi paladini nella difesa degli animali e non rendersi conto della contraddizione? Essere pronti a tagliarsi una mano in difesa del proprio cane o del proprio criceto e infischiarsene del vitellino o del maiale che viene ucciso per il piacere della propria gola?
Come è possibile chiedere rispetto per gli animali che vivono con noi ed essere indifferenti al dolore causato a creature fisicamente più distanti? Come si può lottare per il bene di un solo componente la famiglia e considerare sacrificabile gli altri componenti?
Il cardine di tutti i problemi umani sta proprio in questo: dalla capacità di separare vita da vita, giustizia da giustizia, libertà da libertà, diritti da diritti, compassione da compassione, dal considerare gli altri fisicamente più lontani non inseribili nella nostra sfera di giustizia e di amore.
E’ come dire che la lotta contro la tortura e la pena di morte è valida solo per gli europei, mentre gli altri componenti l’umanità possono essere tranquillamente torturati o uccisi.
Non possiamo dire di amare gli animali se differenziamo animale da animale, come non si può dire che amiamo l’umanità se amiamo solo una parte di essa e consideriamo legittimo soggiogare, schiavizzare, torturare e uccidere l’altra parte.
Chi ama solo il suo cane o il suo gatto non può definirsi animalista, come non può definirsi animalista chi dà mangiare ai loro animali la carne di altri animali uccisi.
Coloro che vivono questa contraddizione, se proprio vogliono dare la cane ai loro animali, farebbero bene a reperire i resti di pasti cruenti da persone che ancora non sono vegetariane.
Il nostro compito di universalisti è quello di aiutare la gente a capire e a mettere in discussione le proprie consolidate abitudini, a svincolarsi da tradizioni ingiuste quanto dannose, a capire che la coerenza nella vita, tra ciò che si desidera per questo mondo e ciò che si fa o si dice, è fondamentale per la nostra credibilità.
Coerenza è anche smetterla di indossare cuoio, pelle o pellicce di animali: cosa penseremmo se qualcuno portasse addosso la pelliccia del nostro cane?
Insomma, dobbiamo smetterla di auto – giustificarci perché la nostra causa ha bisogno di coerenza.
Certo non si arriva in cima alla scala senza passare attraverso tutti i gradini che la compongono, per questo è meglio non pretendere tutto e subito ma dare alla gente il tempo di capire, di maturare, ma è altresì opportuno e più giusto che color che dicono di amare gli animali (e che però se li mangiano, anche se di tanto in tanto) non si definiscano animalisti e tanto meno vegani.
“Davanti al dolore fisico, tutti gli animali sono uguali. Anche l’uomo è un animale, e il suo dolore e la sua paura valgono quelli di altri animali, e, oppresso o torturato, non può suscitare che un desiderio e un imperativo immediato: il soccorso. Ma, stabilito questo, resta la domanda: perché mai il dolore umano viene sempre considerato ingiusto, un male da eliminare, una specie di vergogna che impegna la società a combatterlo con tutte le sue forze, mentre poi, costantemente, il dolore animale, anche il più terribile, è accettato come una fatalità, non solo, ma, se deve procurare qualche nuovo beneficio all’uomo, è una fatalità benedetta? Perchè questa differenza tra corpi viventi che, se tormentati o straziati, soffrono ugualmente? Soffrono atrocemente e infinitamente?”
(A. M. Ortese – Le piccole persone)